Nella giungla degli articoli sul covid-19

Nella giungla degli articoli sul covid-19

Il Covid era ancora in piena virulenza che già le menti accademiche di ogni campo disciplinare (dalla medicina alla psicologia, dall’economia alla giurisprudenza) si organizzavano per promuovere linee di ricerca covid-related. Chi fa parte di un Comitato etico di Dipartimento è quotidianamente subissato da progetti di ricerca da valutare. È bello che la comunità scientifica si galvanizzi di fronte a un evento inatteso, su vasta scala e capace di coinvolgere le più svariate discipline. E promuova disegni di ricerca. I più veloci, quelli con un’ampia casistica per le mani, quelli che hanno scelto variabili di facile reperibilità (magari con survey online) hanno già scritto e in molti casi pubblicato i loro lavori. Le riviste scientifiche possono già vantare in sommario parecchi papers covid-related. È difficile pensare a un altro momento della storia in cui un unico argomento richiamasse l’attenzione di così tanti esperti di altrettante discipline. Per rimanere in ambito medico-scientifico, alla fine di gennaio 2020 erano già stati pubblicati più di 50 articoli, un dato riportato con una certa meraviglia dalla rivista Nature. Sapete bene che quel numero nel giro di pochi mesi è smisuratamente aumentato. All’inizio di giugno il database della National Library of Medicine conteneva più di 17.000 papers. La stragrande maggioranza di questi articoli è disponibile online. Tra i tanti processi già in atto che la pandemia ha vistosamente accelerato (smart working, e-learning, smaterializzazione delle relazioni, tanto per elencare i più evidenti), c’è anche l’iperproduttività scientifica.

Complice la tendenza a valutare le carriere accademiche in termini di numero di articoli prodotti, numero di citazioni, impact factor e così via, assistiamo a una crescita esponenziale di questi contributi. Ci poniamo tre domande: a) sono tutti utili? b) sono tutti leggibili? c) sono tutti affidabili? Spesso leggerli è una sfida anche per gli addetti ai lavori. Le riviste cosiddette open access, che in cambio di un pagamento piuttosto consistente (anche attorno a due/tre mila euro per articolo), garantiscono processi veloci di peer review e visibilità online, rappresentano una variabile in più su cui riflettere.

A parte questo, il fatto che un paper superi il processo di peer review (spesso, e giustamente, un vero e proprio percorso a ostacoli) non sempre è una garanzia. Il caso più recente e clamoroso riguarda l’uso dell’idrossiclorochina (farmaco antimalarico usato anche  nella terapia dell’artrite reumatoide e del lupus eritematoso sistemico) nella terapia anti Covid-19. Nel mese di maggio, Lancet (una delle riviste mediche più note e prestigiose) pubblica un lavoro monstre (96mila cartelle cliniche provenienti da 671 strutture ospedaliere di tutto il mondo) che denuncia che le terapie con idrossiclorochina aumentano la mortalità nei pazienti Covid-19. L’OMS ne sospende la sperimentazione. Un gruppo numerosissimo di scienziati poco convinti scrivono a Lancet, chiedendo garanzie di autenticità del database su cui si basano lo studio. Che, a un’analisi più attenta, risulta pieno di incongruenze statistiche e fondato su un database molto sospetto. Nello stesso periodo, un altro studio molto problematico esce su un’altra rivista molto prestigiosa: il New England Journal of Medicine. Stessi sospetti, stesse denunce. Le riviste finiscono per scusarsi e gli articoli vengono ritrattati. L’OMS autorizza la ripresa dei test con idrossiclorochina. Nel frattempo però, ed è una notizia del 15 giugno 2020, la Food and Drug Administration decide invece di revocare l’autorizzazione all’uso emergenziale dell’idrossiclorochina e della clorochina. Insomma tutti contro tutti: OMS, FDA, Lancet … chi ha ragione? Un vero rompicapo.

Che si abbiano o meno una preparazione medico-scientifica e competenze in metodologia e statistica, quando leggiamo un articolo dobbiamo porre sempre attenzione ad alcune variabili. Per esempio: la numerosità del campione, la presenza di ipotesi (confermate o disconfermate), la solidità dell’impianto statistico, il dialogo con lo stato dell’arte. Come ogni ambito professionale, anche il mondo scientifico non è esente da scorciatoie e superficialità spesso motivate dall’ambizione, dalla ricerca di visibilità, dal desiderio di primeggiare. L’inevitabile successo mediatico del Covid ha portato sotto i riflettori il mondo degli esperti scientifici: virologi, clinici, epidemiologi e anche psicologi. Al netto di qualche baruffa inutilmente plateale e di qualche atteggiamento eccessivamente narcisistico, lo consideriamo un fatto molto positivo. Quando non si scoprono tuttologi, gli esperti parlano con cognizione di causa e sulla base di ragionamenti dettati dalla verifica empirica. In un mondo di fake news (a questo proposito si veda il nostro post del 10 febbraio 2020) ci sembra un fatto importante e rassicurante. Purché anche gli esperti scientifici e i reviewers degli articoli inviati per la peer review non abbandonino i principi, etici e scientifici, che devono guidare il loro lavoro. Per esempio non inseguire facili e veloci successi, attenuare le smanie di protagonismo, pubblicare l’articolo “ultimo grido”. La scienza non deve “far colpo” e le fonti dei dati vanno sempre verificate, soprattutto da quando  archivi di big data, probabilmente in vendita, hanno iniziato a circolare anche nel mondo scientifico.

 

A cura della redazione

 

Per approfondire

Bowers D., House A., Owens D. (2001), Come leggere e capire uno studio clinico. Tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 2004.
Giordano P. (2020), Nel contagio. Einaudi, Torino.