GIORNO DELLA MEMORIA, 27 GENNAIO

GIORNO DELLA MEMORIA, 27 GENNAIO

Ogni anno, dal 2005, il 27 gennaio è la giornata dedicata alle vittime dell’Olocausto, o Shoah. Tra le vittime dei nazisti, le persone di origine ebrea sono state le più numerose; va però sempre ricordato, perché purtroppo la storia dimentica velocemente, quando non siamo attenti, che i nazisti (e non solo) si scagliarono anche contro tutte le altre persone ritenute inferiori per motivi politici o razziali.

Ogni volta che mi approccio a questo tema e cerco di comprendere quello che è stato, nelle parole di storici, filosofi, sopravvissuti e responsabili, mi sento trasportata in un mondo “altro”, che mi sembra non coincidere con il mio. Si tratta di storie che abbiamo sentito tante volte, che ci sono state proposte attraverso qualsiasi mezzo possibile, da quando eravamo piccoli.

Spesso, quindi, mi dimentico che il posto dove vado a mangiare durante la pausa pranzo della scuola che frequento di sabato o dove vado a prendere un te caldo per passare il tempo nell’attesa di prendere un treno, è stato il posto da cui migliaia di persone italiane sono partite per non tornare mai.

Avverto quindi questo fortissimo rischio, ovvero quello di dimenticare che il mondo si è “brutalmente risvegliato” e ha, per la prima volta, potuto vedere ciò che già in realtà si sapeva, solo 78 anni fa. Solo 78 anni fa l’Armata Rossa è entrata ad Auschwitz. Si tratta di un tempo incredibilmente breve per avere la sensazione che si trattasse di un mondo diverso da quello di oggi. Ed è questo il pericolo, quello di dimenticarci che si trattava di una società simile a quella di oggi. Perché se ci dimentichiamo che solo 80 anni fa l’Italia e l’Europa hanno vissuto questo orrore, hanno permesso questo orrore, allora ci dimentichiamo del fatto che potrebbe succedere di nuovo.

E ci assopiamo.

E quindi non ascoltiamo, non ascoltiamo nessuno di quei segnali che ci dicono che in tutto il mondo persone subiscono un destino simile a quello delle persone di origine ebrea. Non ascoltiamo perché sono storie che vengono da lontano, sulle quali noi sentiamo di non avere responsabilità.

Quando mi accorgo di essere caduta nello stesso tranello, un po’ mi vergogno. Certo, mi dico, io non ho avuto alcuna responsabilità relativamente a quello che è successo. Non ero nemmeno nata. E neanche i miei genitori erano nati. Mia nonna aveva 2 anni quando la Seconda guerra mondiale è finita, i miei nonni materni ne avevano rispettivamente 15 e 8. Avevano umili origini, avevano imparato a leggere, a scrivere e a far di conto e poi avevano subito iniziato a lavorare. Sicuramente loro, così come i loro genitori, non avevano responsabilità, non potevano cambiare le cose. E poi altre volte penso che probabilmente loro non conoscevano nemmeno persone perseguitate, costrette a nascondersi per non essere trovate. E poi, in Italia, tutto sommato, le proporzioni del fenomeno sono state ridotte rispetto ad altri paesi. I dati dell’CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) stimano che il totale delle vittime arrivi a circa 8500, più o meno il 13% della popolazione di origine ebraica che si trovava in Italia.

 

La nostra mente mette in atto moltissimi meccanismi per deresponsabilizzarci. Per non sentire sopra di noi l’entità della vergogna e non portarne il peso. Ma chi deve portare il peso di tutto questo? Solo i diretti responsabili? E chi sono i diretti responsabili? Hitler? Gli ideologi del partito nazista? I gerarchi? Mussolini? I soldati? I burocrati? Potrei andare avanti e non finire mai. Ma responsabile è sempre anche chi gira la testa dall’altra parte. E a volte lo facciamo perché non abbiamo altra scelta, perché non ci spieghiamo l’orrore, perché ci hanno insegnato che è giusto non ribellarsi all’autorità, che se “quelli che hanno studiato” dicono che le persone diverse sono pericolose, allora chi siamo noi per dire il contrario?

Ma noi dobbiamo ricordare e dobbiamo portare, almeno in parte, il peso della responsabilità. Per fare sì che nessuna bambina, a 8 anni, si trovi improvvisamente privata della possibilità di andare a scuola, obbligata a mentire per celare la propria identità, a scappare nella neve senza poter portare con sé quasi nulla, lasciando dietro a sé tutto quello che conosceva, in uno stato di confusione e paura. Per far sì che nessuno debba più percepire quella solitudine, quell’indifferenza, quel “voltare la faccia dall’altra parte”, che è una delle più grandi forme di violenza: “perché quello che capitò in quei primi anni della persecuzione fascista, e che mi fece davvero male, fu l’isolamento. Fu la solitudine. La solitudine del perdente. Dovuta all’indifferenza. L’indifferenza, quasi sempre. È più grave della violenza. L’indifferenza è complice” (Liliana Segre, 2018).

 

Bibliografia essenziale
Arendt, H. (1963). La banalità del male. Ed. it. Feltrinelli.
Segre, L. (2018). Scolpitelo nel vostro cuore. Piemme.
Segre, L. (2021). Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah. Solferino.
Urlic, I., Berger, M., Berman, A. (2019). Vittime, vendetta e perdono. Ed. it a cura di Franco del Corno, Edra.

27 gennaio 2023
di Emma Francia, psicologa, psicodiagnosta